Amare l’uomo come se
stessi, secondo il comandamento di Cristo,
non è possibile. L’io
è di ostacolo.
Cristo soltanto lo poteva, ma Cristo era l’ideale eterno sin
dall’inizio
dei tempi, quell’ideale al quale tende, e deve tendere per
legge di natura
l’uomo.
Invece, dopo la comparsa di Cristo come ideale dell’uomo
incarnato
è diventato chiaro come il giorno che lo sviluppo supremo
l’evoluzione ultima della personalità deve appunto arrivare
a far sì che l’uomo trovi, riconosca e con tutta la
forza della sua natura si convinca
che l’uso più elevato che egli può fare
della propria personalità, della pienezza
di sviluppo del proprio io, consiste quasi
nell’annientare l’io
stesso, nel consegnarlo completamente a tutti
a ciascuno indivisibilmente e senza riserve,
questa è la massima felicità.
In tal modo, la legge dell’io si fonde con la legge dell’umanesimo,
nella fusione
entrambi gli elementi, l’io e il tutto (due contrapposizioni estreme)
reciprocamente annullandosi l’uno
a favore dell’altro
nello stesso tempo raggiungono anche lo scopo supremo del
proprio
sviluppo individuale, ciascuno per proprio conto.
Questo è appunto il paradiso di Cristo.
Tutta la storia, sia dell’umanità, sia, in parte, di
ciascuno
singolarmente, è soltanto evoluzione, lotta,
perseguimento e conseguimento di questa meta.
Ma se questa è la meta finale dell’umanità ecco allora che
l’uomo, attingendola
completerà altresì la propria esistenza terrena.
Quindi, sulla terra l’uomo è un essere in evoluzione, non
concluso, ma transeunte.
Raggiungere questa meta altissima, secondo il mio parere, è del tutto
insensato se al momento in cui si raggiunge tutto si spegne e
svanisce
ossia se l’uomo non continua a vivere anche dopo averla raggiunta.
Di
conseguenza esiste la vita futura, il paradiso.
Quale essa sia, dove, su quale pianeta, in quale centro
forse nel centro finale, ossia nel senso della sintesi universale - ossia Dio?
- Noi non lo sappiamo -
(Dostoevskij appunto del 1864)
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